Quando furono allineati i termini di decadenza dell’azione di accertamento con quelli previsti dall’articolo 2, commi 8 e 8-bis, del decreto del Presidente della Repubblica del 22 luglio 1998, n. 322 in tema di presentazione della dichiarazione integrativa in materia di imposte sui redditi e di Irap, senza più alcuna distinzione, fu come andare per la prima volta sulla Luna, un piccolo per l’uomo, un grande passo per la fiscalità. L’entusiasmo, tuttavia, è durato molto meno del previsto e si è scontrato ben presto con la realtà.
L’articolo 5 del Decreto Legge del 22 ottobre 2016, n. 193, come in una rivoluzione copernicana, superò definitivamente la distinzione dei termini, espressamente prevista nel contesto precedente, fra dichiarazione integrativa a favore e a sfavore del contribuente. In precedenza, infatti, la dichiarazione dei redditi integrativa a sfavore del contribuente, ovvero dalla quale emergesse un maggior reddito o, comunque, un maggior debito d’imposta o un minor credito, doveva essere presentata non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo. All’epoca l’anomalia risiedeva nel diverso trattamento riconosciuto al contribuente rispetto all’Amministrazione Finanziaria. Mentre il tempo a disposizione per correggere errori od omissioni era limitato a soli dodici mesi, i termini di decadenza dell’azione di accertamento erano sempre stati più ampi, in un rapporto uno a cinque.
Compressione dei termini che, ben prima della riforma, non impedì alla Suprema Corte di Cassazione di affermare come nulla effettivamente ostasse a che la possibilità di emendabilità della dichiarazione dei redditi, mediante allegazione di errori nella dichiarazione e incidenti sull’obbligazione tributaria, fosse esercitabile non solo nei limiti delle disposizioni sulla riscossione delle imposte (DPR n. 602 del 1973, articolo 38) ovvero del regolamento per la presentazione delle dichiarazioni (DPR n. 322 del 1998, articolo 2), ma anche nella fase difensiva per opporsi alla maggiore pretesa tributaria azionata dall’erario (Cass. n. 26187 del 2014, Cass. n. 12149 del 2014). Ben oltre, quindi, rispetto ai dodici mesi concessi dal precedente impianto normativo, primo atto di quel parallelismo assicurato successivamente dalla riforma.
Al contrario l’odierno articolo 2, comma 8-bis, del decreto del Presidente della Repubblica del 22 luglio 1998, n. 322 non fa più alcuna distinzione. La dichiarazione integrativa, indipendentemente dal suo esito finale, deve essere presentata non oltre i termini stabiliti dall’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, ovvero entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione.
Almeno teoricamente, un’unica scadenza per entrambe le fattispecie. Non è così per l’Amministrazione Finanziaria. Nel commentare la valenza dell’articolo 67 del Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni dalla Legge 24 aprile 2020, n. 27, in tema di sospensione dei termini relativi all’attività degli uffici degli enti impositori, con il quale sono stati sospesi dall’8 marzo al 31 maggio 2020 i termini relativi alle attività di liquidazione, di controllo, di accertamento, di riscossione e di contenzioso, secondo l’Agenzia delle Entrate il differimento del termine di decadenza dell’azione di accertamento conseguente al periodo di sospensione, che risulta automaticamente prorogato di 85 giorni rispetto alle previsioni dell’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, non assume alcuna rilevanza ai fini del termine gemello, ovvero quello relativa alla presentazione della dichiarazione integrativa. Sul punto, nella risposta all’Interpello n. 620 del 2020, l’Amministrazione Finanziaria ha giustificato la propria posizione avviandosi dal presupposto miope secondo il quale il legislatore emergenziale, con la disposizione in commento, prorogando il termine di decadenza dell’azione di accertamento, non ha ritenuto di differire anche il termine entro il quale il contribuente può correggersi ed eventualmente ravvedersi.
Applicando tale principio, mentre gli avvisi di accertamento relativi al periodo d’imposta 2016, naturalmente in scadenza al 31 dicembre 2022, sono nei fatti prorogati al 26 marzo 2023 per via della citata sospensione, le dichiarazioni integrative relative al medesimo periodo d’imposta dovranno essere inviate entro il 31 dicembre 2022, ovvero 85 giorni in meno rispetto alla possibilità di accertamento tributario da parte dell’Amministrazione Finanziaria.
La posizione, evidentemente, non è sostenibile. Il parallelismo tra i termini di presentazione della dichiarazione integrativa e di decadenza dal potere di accertamento del relativo anno d’imposta non è una concessione temporanea, ma un principio di diritto che mira ad assicurare la parità delle armi, ovvero la possibilità per il contribuente di ravvedersi nel medesimo arco temporale in cui l’Amministrazione Finanziaria può legittimamente avanzare l’avviso di accertamento. In questo senso non può un’interpretazione strettamente letterale, ovvero il richiamo formale all’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, escludere come i due termini siano saldamente collegati, secondo un legale inscindibile e imprescindibile che non può essere sciolto.