Il transfert pricing domestico non esiste. È concreta, invece, la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di sindacare le scelte imprenditoriali quando si manifestano palesemente antieconomiche. Nell’ambito dei rapporti infragruppo lo scostamento dal valore di mercato, se non giustificato dalla complessiva strategia imprenditoriale, assume un valore indiziario a discapito del contribuente.
L’articolo 110, comma 7, del TUIR dispone che i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono soggette a comune controllo, se ne deriva un aumento del reddito imponibile, sono determinati con riferimento alle condizioni e ai prezzi che sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza e in condizioni comparabili. La disposizione, che trova concreta attuazione con il Decreto Ministeriale 14 maggio 2018, è stata introdotta per scongiurare il rischio di improprio trasferimento di reddito imponibile da un soggetto residente ad un soggetto non residente riconducibile al medesimo gruppo economico. Lo scopo è quello di evitare che all’interno delle società del gruppo vengano posti in essere trasferimenti strumentali di utili tramite l’applicazione di prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti o maggiori dei beni acquistati, al fine di sottrarre base imponibile alla tassazione in Italia e a favore di tassazioni estere più favorevoli (Cass. n. 22023 del 2016).
Orbene, secondo il più recente orientamento della Suprema Corte di Cassazione tale meccanismo antielusivo, giustificato dalle ragioni superiori appena espresse, non può trovare diretta applicazione nei rapporti infragruppo domestici. Diversamente da quanto si tentò di affermare in un primo momento (Cass. n. 17955 del 2013), secondo cui la clausola prevista dall’articolo 110, comma 7, del TUIR non sarebbe altro che l’espressione del generale divieto di abuso del diritto in materia tributaria e, quindi applicabile indipendentemente dalla natura dei soggetti coinvolti, l’odierna posizione della giurisprudenza di legittimità, complice la disposizione di interpretazione autentica di cui all’articolo 5, comma 2, del Decreto Legislativo n. 147 del 2015, secondo cui la disposizione di cui all’articolo 110, comma 7, del TUIR, si interpreta nel senso che la disciplina ivi prevista non si applica per le operazioni tra imprese residenti o localizzate nel territorio dello Stato, ha escluso qualsivoglia tentativo di applicazione ai rapporti interni (Cass. 11053 del 2021).
L’esclusione dell’applicazione analogica del transfert pricing non significa, tuttavia, che l’Amministrazione Finanziaria resti inerme e non possa sindacare le scelte imprenditoriali quando si manifestino illogiche e contrarie alle regole dell’economia. Sul presupposto che l’attività economica dovrebbe indirizzare la propria condotta verso una riduzione dei costi e una massimizzazione dei profitti, lo scostamento significativo, lampante in ragione del contesto, dal valore normale di cui all’articolo 9 del TUIR quale espressione nell’ordinamento tributario del valore di mercato, assume quantomeno valore indiziario, quale anomalia potenzialmente rilevante nel tentativo di ricostruzione induttiva del reddito, ad esempio nella valutazione di inerenza.
In questa diversa prospettiva, in linea con l’orientamento in materia di comportamento antieconomico del contribuente, la valutazione di adeguatezza del prezzo, ovvero lo scostamento dal valore normale, appare suscettibile di assumere rilievo quale parametro meramente indiziario (Cass. n. 16948 del 2019), non potendo essere negato che le operazioni che si pongono al di fuori dei prezzi di mercato, soprattutto se avvengano fra parti interconnesse fra loro, costituiscono quantomeno un’anomalia. Anomalia che assume rilevanza quando le operazioni sono realizzate senza alcuna giustificazione, che non deve essere necessariamente economica, ma quantomeno apprezzabile in ragione della politica e strategia aziendale, anche di gruppo (Cass. n. 16948 del 2019).
Pertanto, il principio di insindacabilità delle scelte imprenditoriali da parte dell’Amministrazione finanziaria, secondo il quale l’ente impositore non può spingersi fino al punto di sindacare le scelte che riflettono valutazioni di strategia commerciale riservate all’imprenditore (Cass. n. 21405 del 2017), non può spingersi fino ad escludere in radice che lo scostamento dal valore normale del prezzo di transazione possa assumere rilievo quale elemento indiziario utile ai fini della valutazione di antieconomicità delle operazioni.